Da sempre la letteratura di fantascienza ci prospetta scenari nei quali umani e robot coesistono: per lo più, sono considerati antagonisti tra loro, e lo sviluppo più plausibile è che gli androidi prendano il sopravvento, in quanto più evoluti, perfezionati e meno vulnerabili.
In realtà, il padre della fantascienza moderna Isaac Asimov ha provveduto a confortare gli umani, stilando le leggi alle quali obbediscono tutti i robot positronici che compaiono nei suoi racconti. La prima delle tre leggi fondamentali della robotica declama: “Un robot non può recar danno ad un essere umano e non può permettere che, a causa di un suo mancato intervento, un essere umano riceva danno”.
Nonostante questo, la deriva pessimista non è arginata, perché la concezione del ‘danno’ secondo un’intelligenza artificiale potrebbe essere molto più complessa rispetto a quella percepita da una mente umana. Nel senso: se è l’uomo stesso a recare danno all’uomo, con un comportamento sconsiderato, qual è l’atteggiamento che dovrebbe tenere un robot in tale evenienza?
Il punto di vista di Ian McEwan, nel suo lavoro “Macchine come me”, pubblicato da Einaudi con la traduzione di Susanna Basso, è molto diverso rispetto alla tradizionale contrapposizione uomo/macchina e riguarda un livello più intimo, quasi filosofico.
Tutto parte da un presupposto fondamentale: che cosa rende un essere umano tale?
Nel momento in cui i robot provano sentimenti, elaborano ragionamenti etici, o creano opere d’arte, perché dovrebbero essere considerati differenti? Se invece fossero gli umani ad essere più spietati e meccanici?
Il romanzo è ambientato in un 1982 alternativo, rispetto a quello che noi ricordiamo. I Beatles si sono appena riuniti per un nuovo album e Alan Turing non è morto: anzi, ha dato il suo contributo al progresso tecnologico e robotico. Esistono i cellulari, ed internet è alla portata di tutti: i computer sono già parte integrante della vita di tutti i giorni.
Sul mercato sono appena stati immessi venticinque prototipi di umanoidi perfettamente realistici: tredici donne chiamate Eve e dodici uomini di nome Adam.
Sono persone effettive, artificiali eppure in grado di sviluppare proprie personalità, coscienza e emotività, con gusti personali e preferenze anche sessuali, sviluppate secondo la quantità e qualità di informazioni ricavate dalla loro esperienza.
Differiscono dagli esseri umani per la loro speditezza e per il sistema di ragionamento basato su algoritmi: sono capaci di guadagnare grandi capitali nell’arco di pochi minuti, giocando in borsa, e possono comporre haiku ad una velocità impressionante. Ma per il resto, sono perfettamente confondibili con le persone in carne ed ossa.
Charlie Friend, trentenne spiantato, decide di investire un’eredità appena ricevuta nell’acquisto di un Adam, bello intelligente, eppure inevitabilmente strano.
L’abilità dell’autore sta nell’utilizzare uno spunto narrativo canonico per congegnare un effetto straniante: è impossibile considerare Adam come un prototipo da laboratorio, pur se apparentemente è presentato come tale. Personaggi umani e robotici si confondono con un’indeterminatezza perennemente presente. Semplice nello sviluppo della storia, ma con effetti collaterali che permangono anche dopo la fine della lettura: persistono nella coscienza le domande che una persona si può portare dietro per tutta la vita.
E se le macchine fossero davvero migliori degli uomini?