Skip to main content
News

«Where is everybody?»

By Marzo 8, 2021No Comments

«Where is everybody?»

Alcuni eminenti scienziati si trovavano in una pausa pranzo.

Libero dai gioghi cattedratici, il fisico Enrico Fermi poneva, ai suoi colleghi, una questione estremamente seria in questa maniera semplice.

Il paradosso nato da questa domanda si riassume nel seguente ragionamento: dato l’enorme numero di stelle nell’universo osservabile, è consequenziale pensare che la vita possa essersi sviluppata in un grande numero di pianeti e che moltissime civiltà extraterrestri evolute siano apparse durante la vita dell’universo. E allora perché non è così?

Stephen Webb, in un suo trattato poco conosciuto, esamina 75 possibili risposte al paradosso di Fermi fornendo alla fine un punto di vista inconsueto sull’evoluzione della vita sul nostro pianeta.

La vita sulla Terra, da quando è nata quasi quattro miliardi di anni fa, si è evoluta a un ritmo sempre più accelerato: ci sono voluti due miliardi di anni per passare dagli archeobatteri ai primi esseri unicellulari eucarioti; forse un altro miliardo di anni, per produrre i primi organismi pluricellulari, mezzo miliardo di anni per le piante superiori, i rettili, i mammiferi.

L’evoluzione culturale e tecnologica dell’uomo ha seguito ritmi ancora più accelerati: l’invenzione della ruota ha richiesto centinaia di migliaia di anni; ma solo poche migliaia sono state sufficienti per passare dalla ruota alla locomotiva e al biplano, e meno di un secolo per passare da questi allo sbarco sulla Luna e all’esplorazione del Sistema Solare con sonde automatiche.

Il fatto che dopo quattro miliardi e mezzo di anni dalla formazione della Terra siamo giunti a questo punto suggerisce che verosimilmente questo è l’ordine di grandezza del tempo richiesto per compiere tale evoluzione; e poiché il progresso dell’astronomia ci ha insegnato che la Terra non occupa in alcun modo un posto privilegiato nell’Universo, non c’è ragione di credere che un’evoluzione analoga non possa essere avvenuta anche altrove.

L’esistenza di pianeti extrasolari, che all’epoca di Fermi era solo una congettura, è ora un fatto assodato: negli ultimi trent’anni ne sono stati scoperti più di quattromila, e sappiamo che solo nella nostra Galassia ne esistono centinaia di miliardi, di cui una percentuale non piccola deve avere caratteristiche fisiche simili alla Terra: miliardi di possibili culle per forme di vita aliene.

Siccome il nostro Sole è una stella relativamente giovane, non solo ci dovrebbero essere in giro una quantità di civiltà extraterrestri, ma molte di queste dovrebbero essere molto più antiche e progredite della nostra e aver raggiunto livelli tecnologici che noi neppure riusciamo a sognare, e in particolare padroneggiare le tecniche del volo interstellare.

Stephen Webb raccoglie e illustra in questo libro settantacinque possibili soluzioni al paradosso di Fermi, dividendole in tre macro-categorie:

  1. non è vero che non ci siano tracce di presenze aliene, basta saper guardare con attenzione;
  2. gli alieni esistono, ma per qualche motivo non siamo in grado di rilevare la loro presenza;
  3. le civiltà extraterrestri non esistono, cioè noi siamo l’unica forma di vita intelligente nell’Universo.

Nella prima categoria, che Webb intitola ‘Loro sono (o sono stati) qui’, rientrano le affermazioni di chi crede di individuare un’origine aliena negli oggetti volanti non identificati in certi prodotti delle civiltà del passato (ad esempio le piramidi, Stonehenge) o in strutture visibili sulla Terra (i cerchi nel grano) e su altri pianeti (la faccia su Marte).

Tuttavia l’autore ritiene che nessuno degli argomenti proposti in questo campo abbia mai costituito una prova convincente dell’esistenza di civiltà extraterrestri, e quindi non pensa che la soluzione del paradosso possa essere trovata in questa direzione.

La seconda categoria di soluzioni cerca di dimostrare che gli alieni esistono, ma ancora non li abbiamo visti, né sentiti.

Ogni soluzione di questo tipo deve giustificare i motivi per cui, se civiltà extraterrestri esistono, non solo non ne abbiamo ancora rivelato la presenza qui, ma non siamo riusciti neppure a rilevare a distanza i segni della loro attività.

Si entra in un campo molto ipotetico, perché le considerazioni devono basarsi necessariamente sulla previsione di quali potrebbero essere le caratteristiche di tecnologie, culture e condizioni sociali di civiltà completamente differenti e molto più avanzate della nostra.

Webb osserva che, da un punto di vista strettamente fisico, non sembrano esserci impedimenti alla possibilità di viaggi interstellari, ma i tempi necessari sarebbero ovviamente molto lunghi: non è chiaro se una civiltà, anche potendolo, avrebbe motivazioni sufficienti per intraprendere una colonizzazione della Galassia, e per perseverare in questa impresa per le migliaia di anni che essa potrebbe richiedere. Per quanto riguarda le possibilità di una rilevazione a distanza, occorre notare che tutti i tentativi che sono stati fatti in questo senso, inevitabilmente peccano di antropocentrismo; cioè assumono che i mezzi con cui una ipotetica civiltà aliena potrebbe manifestare (di proposito o involontariamente) la propria presenza siano simili a quelli che usiamo noi ora. Ad esempio la maggior parte dei tentativi di “ascolto” di trasmissioni extraterrestri si è concentrata nel campo delle onde elettromagnetiche: ma questa è una tecnologia che noi utilizziamo da appena due secoli, ed è possibile che in un prossimo futuro anche noi la abbandoneremo.

Nonostante le grandi incertezze di argomentazioni di questo tipo, Webb ritiene che sia difficile giustificare “il grande silenzio” solo ricorrendo a spiegazioni che rientrano in questa categoria, perché non è ragionevole supporre che esse si possano applicare a tutte le civiltà esistenti, con la grande varietà di caratteristiche che essere devono avere.

La terza categoria di argomenti risolve il paradosso giungendo alla conclusione che gli alieni non esistono: ciò non significa necessariamente che l’Universo non ospiti altre forme di vita, ma che, se queste esistono, non si sono sviluppate fino al punto di produrre una tecnologia in grado di costruire astronavi e radiotelescopi; in altre parole noi saremmo l’unica civiltà tecnologicamente evoluta dell’Universo. Questo tipo di spiegazione non piace molto agli astronomi, per i quali rinunciare al “principio di mediocrità” (la Terra è un pianeta del tutto comune, in orbita attorno a una stella del tutto normale, in una galassia come tante, ecc.) ha molto il sapore di un ritorno all’astronomia tolemaica. Tuttavia se si esaminano nel dettaglio le condizioni astronomiche che hanno permesso la nascita della vita e il suo sviluppo fino ai nostri giorni, si vede che formano una combinazione di colpi di fortuna che non sembra possa essere molto frequente: ad esempio, è necessario un pianeta dotato di moti convettivi interni (tettonica a zolle) che producano un campo magnetico in grado di proteggere la superficie dai raggi cosmici; che si muova su un’orbita non troppo ellittica e sufficientemente stabile; che sia dotato di un’atmosfera che produca un effetto serra adeguato. È necessario anche un satellite di massa abbastanza grande da stabilizzare la direzione dell’asse di rotazione del pianeta, ma non troppo grande, altrimenti le maree produrrebbero effetti altrimenti nocivi; ecc. ecc.

A conclusioni analoghe si perviene studiando l’evoluzione biologica, che è stata caratterizzata da eventi altamente improbabili e che non sembrano rivestire alcun carattere di necessità dal punto di vista della selezione naturale: la nascita degli eucarioti, la nascita di esseri pluricellulari, lo sviluppo dell’intelligenza, della coscienza, del linguaggio, della scienza e della tecnologia (per ciascuna di queste conquiste, si potrebbero citare innumerevoli controesempi di organismi che sembra se la cavino benissimo anche senza di esse).

Il fatto che sulla Terra questi sviluppi favorevoli si siano effettivamente verificati non costituisce in alcun modo un argomento statistico a favore del fatto che siano frequenti, o anche solo possibili, su altri pianeti. La nostra esistenza costituisce infatti un potentissimo effetto di selezione: noi possiamo vedere solo una Terra e un’evoluzione passata tali da rendere possibile la comparsa di noi stessi come osservatori coscienti.

Se le cose fossero andate in altro modo, oggi non ci sarebbe nessuno a porsi domande simili.

Quest’ultimo capitolo è forse la parte più interessante del libro di Webb perché, al di là della discussione sul paradosso di Fermi, offre un punto di vista inconsueto sull’evoluzione della vita e dell’uomo e sui suoi sforzi per costruire una cultura e una scienza.

McService

Author McService

More posts by McService

Leave a Reply